Conte, missione compiuta. Ma non poteva bastare
Colpa? No. Rimpianto? Forse. La serata di Bordeaux lascia una coda amara, dopo quasi tre ore di lotta, corsa e sudore, poco calcio e 18 interminabili rigori, che probabilmente premiano più un movimento rispetto a una squadra, un lavoro pluriennale rispetto ai 120 minuti di gioco. Si paga tutto insieme, dopo una prestazione, ancora una volta, oltre le aspettative. Nessuno, viste le gare precedenti, poteva temere un cappotto simile a quello di marzo all’Allianz Arena, ma era esercizio di ottimismo pensare di tenere il campo in questo modo contro i Campioni del Mondo schierando una linea mediana composta da elementi oggettivamente di medio cabotaggio per tutti i regolamentari e i supplementari, in una gara da dentro o fuori in cui l’esperienza gioca un ruolo fondamentale. E dopo aver neutralizzato la Spagna, l’Italia ha costretto la Germania, probabilmente la squadra con la maggiore identità tra quelle rimaste in gioco, ad adattarsi, a rimodellarsi sul proprio avversario, finendo per risultare meno efficace rispetto alle sue possibilità per gran parte del match, pur di impedire all’Italia di applicare a sua volta i consueti 2-3 dispositivi studiati ad hoc per la gara. Bravi i tedeschi a riuscire a mettere del loro in occasione del vantaggio di Özil, bravi gli azzurri a restare a galla, magari non facendo vedere di avere reali possibilità per impensierire Neuer con continuità, ma aspettando quell’episodio che può sempre arrivare e che è arrivato, dopo una manciata di minuti in cui la barca poteva realmente affondare. Le assenze hanno avuto un loro peso, chi è andato in campo non è stato comunque perfetto e si può recriminare su qualche decisione dell’allenatore o, più in generale, sulla composizione del tabellone: l’idea, però, è che chiedere di più a quella che ai nastri di partenza era facilmente etichettata come una delle squadre azzurre più scarse di sempre oggi sarebbe forse anche scorretto. Specie se l’ipotetico valore percentuale del contributo proveniente dalla panchina viaggia ben oltre il 50: Conte ha senz’altro compiuto la sua missione, quella di trovare in un anno e mezzo 23 giocatori (al netto degli infortuni, perché non è mai da dimenticare che in Francia sarebbero dovuti volare anche Claudio Marchisio e Marco Verratti, non due qualsiasi) da rendere parti di un meccanismo che li facesse rendere oltre il loro valore individuale per poter tener testa a chi partiva con enorme vantaggio tecnico. Tra questo ed essere realmente competitivi per il titolo, al di là di discorsi sulla sorte, passavano tante cose, o quantomeno troppe per poter essere caricate sulle spalle di una sola persona, che da domani, oltretutto, svolgerà un altro lavoro. Resterà certamente il rammarico di aver avuto la chance di sorprendere e di non essere riusciti a sfruttarla appieno, non quello di aver lasciato qualcosa di intentato. Una sensazione strana, certamente inusuale per una nazionale storicamente vincente come l’Italia. Che da settembre dovrà ricominciare da capo, con un nuovo CT e perdendo tutto quello che di buono ha messo Conte nel suo ciclo. Tanto. Forse troppo.