A un gradino dall'impresa, ma non finisce qui...
A tanto così. L'abbiamo pensato tutti dopo il colpo di testa di Marchisio, quello di Maggio e il palo di Giaccherini nei supplementari. L'abbiamo pensato tutti dopo il rigore di Jesus Navas che ci ha condannati, ancora una volta. Siamo andati a tanto così dal cancellare quella maledizione che nel 2008 iniziò proprio in questo modo, con una serie di rigori che, finita diversamente, avrebbe potuto cambiare la storia degli ultimi anni delle competizioni per nazionali.
Finisce invece "come al solito", con la roja a festeggiare la vittoria in una gara ad eliminazione diretta che meno avrebbe meritato di vincere dal 2006 in poi, con un'Italia che a tratti è riuscita a inibire del tutto il gioco spagnolo, ripartendo sugli esterni con grande velocità e soprattutto qualità, che troppe volte era mancata in precedenza nella manovra offensiva. Prandelli, memore dell'Europeo, ha guardato in faccia la realtà: questa squadra, come praticamente ogni altra sul globo terraqueo, non può (e mai potrà) giocarsela sul palleggio contro i centrocampisti di Del Bosque sperando di uscirne viva. Dentro dunque difesa a tre, centrocampo di grande corsa - da segnalare la prova clamorosa di Daniele De Rossi, sia da mediano che da libero -, due incursori e davanti il solo Gilardino a tenere alta la squadra con la sua fisicità. Un approccio sicuramente poco moderno, poco dominante e poco "da grande", ma l'unico al momento applicabile contro i Campioni di tutto. E se Maggio e Giaccherini macinano chilometri senza mai fermarsi, Marchisio e Candreva si buttano dentro gli spazi quasi sdoppiandosi rispettivamente nel terzo centrocampista e nell'esterno di destra aggiunto, i difensori non sbagliano un disimpegno e la Spagna non riesce ad accelerare con costanza, succede che le occasioni ce le hanno quelli in maglia bianca, che in pochi avrebbero pensato potessero creare così tanto anche nel solo primo tempo.
Certo, poi dall'altra parte ci sono sempre Xavi e Iniesta che viaggiano con la colla sulle scarpe, ci sono Piqué e Sergio Ramos che giganteggiano in difesa, ci sono Juan Mata e Jesus Navas che entrano dalla panchina, c'è Del Bosque che può scegliere tra tre centravanti oppure nessuno, come nei supplementari quando Javi Martinez ha giocato da falso nueve cambiando le carte in tavola e l'inerzia della gara, anche a causa dell'inevitabile stanchezza azzurra. Ma non sarà sicuramente un rigore (il settimo, tra l'altro) calciato fuori da un difensore centrale a ribaltare il giudizio di una gara ad insindacabile appannaggio dell'Italia, che neanche a Danzica un anno fa o a Bari in amichevole due anni fa era riuscita a tenere in mano le operazioni per così larghi tratti della gara.
Due quindi i diktat con cui lasciamo Fortaleza. Primo: non far subentrare la frustrazione di non riuscire a raccogliere quanto più volte ben seminato contro la Spagna, ma rendersi conto di essere in grado di poter mettere alle corde Torres e compagni. Secondo: non credere che quella di stasera sia la via da seguire anche contro altri avversari. La storia della Nazionale di Prandelli insegna che l'autostima con cui affrontare alla pari le grandi d'Europa arriva attraverso i risultati, e i risultati sono sempre arrivati attraverso il gioco e la qualità, che stasera come detto non è mancata ma che era comunque in subordine rispetto a elementi ugualmente utili come grinta e maggiore attenzione alla fase difensiva.
Non termina comunque stasera la Confederations Cup degli Azzurri, con la finale per il terzo posto da giocarci domenica conto l'Uruguay, prima di lasciare il Brasile e tornarci presumibilmente tra un anno, per dare l'assalto a una Coppa del Mondo e magari porre fine al dominio spagnolo nell'ennesima possibile rivincita. Perché se c'è una squadra ha dimostrato di potercela fare, quella è senz'altro l'Italia.